Immobili diruti e unità collabenti: la disciplina giuridica dei ruderi

PREMESSA: INQUADRAMENTO DEL TEMA

Il decorso del tempo, l’agire dei fenomeni atmosferici o eventi catastrofici (come terremoti o maremoti) possono arrecare gravi danni a beni immobili sino a renderli “ruderi”.

Nel linguaggio comune si intende “rùdere (raro rùdero) s. m. [dal lat. rudus -dĕris]. – 1. Si usa quasi sempre al plur., per indicare avanzi di costruzioni edilizie o di statue antiche” (definizione ricavata da TRECCANI, dizionario Online).

La definizione giuridica di rudere è ricavabile dalla giurisprudenza (prevalentemente amministrativa): sono ruderi i “residui edilizi inidonei a identificare i connotati essenziali dell’edificio” (ex multis e tra le più recenti T.A.R. Toscana Sent. 286/19).

In ambito tecnico si preferisce utilizzare il termine diruto” per identificare i ruderi.  

La legislazione della Regione Liguria (n. 30/19) definisce come “fabbricato diruto” quell’immobile le “cui parti, anche significative e strutturali, siano andate distrutte nel tempo, ma di cui sia possibile documentarne l’originario inviluppo planivolumetrico complessivo e la originaria configurazione tipologica” (art. 1 lett. e).

Le principali fonti a livello nazionale (es. codice civile) non trattano espressamente lo stato di questi beni immobili.

Lo stesso T.U.E. (rectius Testo Unico sull’Edilizia – D.lgs 380/01) disciplina gli immobili diruti solo indirettamente: ossia nelle norme (artt. 3 e 3 bis) volte relative agli interventi per la manutenzione e la ristrutturazione degli immobili.

I ruderi vengono anche identificati quali “unità collabenti”. Tratta delle unità collabenti l’art. 3, co. 2, del D.M. 28 gennaio 1998 (“Regolamento recante norme in tema di costituzione del catasto dei fabbricati e modalità di produzione ed adeguamento della nuova cartografia catastale”).

La disposizione in commento, che rileva sotto il profilo fiscale dei ruderi, si limita ad indicare come tale qualifica sia correlata alla inidoneità di questi beni a produrre reddito causa il loro stato di degrado.

 Il termine collabente (participio passato del verbo “collabire”) è significativo: a livello etimologico esso identifica qualcosa che pur esistente sta andando in contro ad una lenta ed inesorabile rovina (Agenzia delle Entrate, Quaderni dell’Osservatorio).

Anche se privi di capacità reddituale le unità collabenti devono essere iscritte nei registri del catasto. Tale iscrizione ha infatti il precipuo scopo di dare certezza ai traffici giuridici (comprendere chi è titolare di un bene).

Precisa infatti l’Agenzia delle Entrate che: “il catasto non ha valenza probatoria (a differenza di quello tavolare) in ordine all’accertamento dei soggetti che detengono la proprietà o altri diritti reali su beni immobili, ma, d’altra parte, l’individuazione fisica di tali beni non può prescindere da quanto risulta al catasto”.

Si noti che una recente ordinanza (n. 90 del 24/01/2020) della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha introdotto una tabella finalizzata a consentire ai Comuni di identificare i criteri per l’accertamento dello stato di collabenza.

IMMOBILI DIRUTI E IN STATO DI ABBANDONO

Un immobile non può essere privo di proprietario.

L’eventuale “abbandono” (allontanarsi dal bene per non effettuare più ritorno) è una mera situazione fattuale che non ha rilevanza giuridica. Può assumerne rilevanza solo in seguito al passaggio del tempo ed ad un’azione specifica di un ulteriore soggetto giuridico il quale vuole assumere la proprietà del bene. L’abbandono non è dunque – di per sé solo – un comportamento idoneo a far venire meno la proprietà del bene.

L’abbandono di un rudere non priverà il proprietario dalla titolarità del suo bene.

La titolarità del diritto di proprietà di un immobile può venire meno unicamente tramite:

– vendita
– rinuncia
(c.d. rinuncia abdicativa al diritto di proprietà).

Vendita

La vendita nel nostro ordinamento è disciplinata dagli artt. 1470 ss c.c. e rappresenta il principale contratto nominato (regolato esplicitamente dal codice civile) esistente in Italia.

Tramite un contratto di compravendita il compratore acquisterà la proprietà del bene dietro il pagamento del corrispettivo pattuito. Trattandosi di beni immobili le norme del codice civile dovranno essere integrate con le disposizioni di cui agli artt. 46 ss T.U.E. (c.d. commerciabilità degli immobili – per approfondimenti clicca qua).

Rinuncia

È possibile rinunciare alla proprietà di un immobile.

Il codice civile ne ammette gli effetti ove riconosce la rinuncia al diritto di proprietà (c.d. abdicativa) di cui all’art. 827 c.c. (586 c.c. in ambito successorio); tale disposizione – si evidenzia residuale – prevede che gli immobili privi di proprietario appartengono allo Stato.

Da questa disposizione si comprende che gli immobili non possono mai diventare res nullius (cioè beni che non appartengono a nessuno).

In caso di rinuncia o morte senza eredi tali beni passano allo Stato. 

La rinuncia, non è un mero comportamento fattuale, ma è un atto che deve rivestire forma scritta ex art. 1350, co. 1 nn. 1 e 5, c.c..

Oltre a questa dichiarazione scritta, il rinunciante dovrà compiere ulteriori formalità quali:

– il pagamento di un’imposta di bollo dal valore di 230 euro – secondo quanto illustrato dalla tabella annessa al D.P.R. 642/1972 (“disciplina dell’imposta di bollo”) modifico dal art. 1, co. 1 bis, del DM 22 febbraio 2007in quanto trattasi di un “atto avente ad oggetto la rinuncia di un immobile”.

– Il pagamento di una tassa ipotecaria dal valore di 90 euro (35 euro per la trascrizione + 55 euro per le volture) secondo quanto riportato dalla tabella allegata al D.lgs. 347/1990.

Alcuni immobili non possono essere oggetto di rinuncia: e il caso disciplinato dall’art. 1118, co. 2 c.c. precisa che “il condomino non può rinunciare alle cose in comune”.

Occupazione di immobili

Dato che gli immobili avranno sempre un proprietario (in assenza di qualsiasi persona fisica o giuridica la loro proprietà spetta allo Stato) non sarà possibile acquisire la proprietà di tali beni mediante occupazione (modo di acquisto della proprietà ex art. 923 c.c. relativo ai soli beni mobili). In un eventuale caso di “occupazione”, o meglio di “spoglio” del bene, (comportamento che riveste carattere di illecito penale ex art. 637 c.p. – norma rubricata invasione di terreni o edifici) il proprietario potrà agire in reintegrazione ex art. 1168 c.c. e conseguire nuovamente il possesso del bene cui ha sofferto lo spoglio.

RESPONSABILITÀ PER EVENTUALI DANNI CAGIONATI DAL RUDERE

Il decorso del tempo può comportare danni alla struttura dell’immobile. Per tale ragione, periodici interventi di manutenzione sono necessari. Alcuni accadimenti come il crollo di parti dell’immobile possono arrecare danni a passanti o veicoli parcheggiati vicino allo stabile.

Questi danni rientrano nel novero dell’art. 2053 c.c. (norma rubricata responsabilità per danni da rovina di edifici); tale disposizione prescrive che il proprietario dell’immobile risponde dei danni causati dalla rovina dell’edificio salvo che non riesca a dimostrare che i danni non siano dovuti da difetto di manutenzione (ove l’immobile sia oggetto di tali opere) o da un vizio della costruzione.

Limitatamente a questi specifici casi: in presenza di un difetto di manutenzione sarà responsabile la società incaricata per effettuare i restauri dell’immobile; in presenza di un vizio della costruzione risponderà la società che aveva realizzato lo stabile.

La dottrina stabilisce che questa responsabilità può essere estesa in via analogica a tutti coloro che vantano sull’immobile un diritto reale di godimento sul bene immobile, quale usufrutto (artt. artt. 978 ss c.c.), uso o abitazione (artt. 1122 c.c.) oppure in forza di un diritto di concessione in uso demaniale di un bene.

Non risponderanno di questa forma di responsabilità coloro che hanno il possesso o la detenzione dell’immobile senza essere proprietari o titolari di un diritto di godimento sul bene (C. M. BIANCA, La responsabilità, p. 738).

RESTAURO & RICOSTRUZIONE

Un rudere potrà essere ristrutturato oppure demolito e ricostruito.

 Molto spesso, nel caso di ristrutturazione edilizia, il primo passo che viene compiuto consiste nella demolizione dei resti dell’immobile.

Una recente pronuncia del T.A.R. per la Lombardia – adito in quanto il proprietario di un rudere si vedeva respinta la domanda di ristrutturazione del bene in quanto identificato come nuova costruzione – offre indicazioni circa i requisiti per i quali un intervento possa essere qualificato  “ristrutturazione”; secondo quanto statuito dal giudice amministrativo è “necessario e sufficiente, quindi, per qualificare l’intervento come ristrutturazione, che l’originaria consistenza dell’edificio sia individuabile sulla base di riscontri documentali [“quali, ad esempio, documentazione fotografica, aerofotogrammetrie e mappe catastali, che consentano di delineare, con un sufficiente grado di sicurezza, gli elementi essenziali dell’edificio diruto”] od altri elementi certi e verificabili” (T.A.R. per la Lombardia – Brescia, Sez. I, Sent.  517/2020).

RUDERI ED AGIBILITÀ

L’agibilità, da intendersi come sinonimo di abitabilità (studio notarile n. 4512), è una delle caratteristiche dell’immobile. L’art. 24 T.U.E. precisa che un immobile è agibile se soddisfa gli standard di sicurezza, di igiene, si salubrità, di risparmio energetico e di rispetto degli obblighi di infrastrutture digitali prescritti dal nostro ordinamento (per approfondimenti sul tema dell’agibilità degli immobili clicca qua).

Un immobile diruto (e collabente al catasto) non è in grado di soddisfare i requisisti dettati dall’articolo citato, quindi: TALI IMMOBILI NON SONO AGIBILI/ABITABILI!

Quanto affermato trova riscontro nell’art. 6 lett. c del D.M. 28 gennaio 1998, norma che stabilisce che sono collabentile costruzioni non abitabili o agibili e comunque di fatto non utilizzabili (…)”

Tuttavia al contrario un immobile non agibile non necessariamente è un rudere o un’unità collabente. È infatti inagibile qualsiasi immobile che non soddisfa i requisiti dettati dall’art. 24 T.U.E. (es. mancanza di rete idrica).

PROFILO FISCALE: UNITÀ COLLABENTI

L’art. 3, co. 2 lett. b, del DM 28 febbraio 1998 definisce come collabenti le “costruzioni inidonee ad utilizzazioni produttive di reddito a causa dell’accentuato livello di degrado” Questi immobili sono collocati nella categoria F/2.

Secondo quanto riportato dall’Agenzia delle Entrate nel 2018 548.148 erano gli immobili rientranti nella categoria castale F/2. Il 32% di questi immobili si trova nelle regioni del nord; il 20% nel centro; il 32% nel sud e il 16% nelle isole.

Per le ragioni sopra illustrate nella parte introduttiva questi immobili sono comunque iscritti nei registri del catasto.

La “declassificazione” di un immobile in unità collabente non è un’operazione automatica. L’Agenzia delle Entrate precisa che per accatastare il bene collabente nella categoria F/2 il proprietario dell’immobile è tenuto ad effettuare:

una relazione sullo stato dei luoghi, con particolare riferimento alle strutture e alla conservazione del manufatto (corredata di documentazione fotografica), sottoscritta da un tecnico;
• un’autocertificazione, resa dall’intestatario del bene, attestante l’assenza di allacciamento dell’unità alle reti dei servizi pubblici dell’energia elettrica, dell’acqua e del gas. [documento attestante la non agibilità del bene].

Fino all’entrata in vigore dell’art. 1, co. 741 della legge di bilancio 2020 (articolo di riforma dell’IMU) si affermava che le unità collabenti non fossero soggette ad IMU-ICI. Data l’assenza di una base imponibile (rendita dell’immobile = 0) si riteneva che l’immobile non potesse essere tassato; allo stesso modo non poteva essere tassata l’area ove sorgeva l’immobile come area edificabile.

Quanto affermato trovava riscontro in una serie di pronunce della suprema Corte di Cassazione che affermavano: “in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), il fabbricato accatastato come unità collabente (categoria F/2), oltre a non essere tassabile come fabbricato, in quanto privo di rendita, non è tassabile neppure come area edificabile” (ex multis Cass. Sez. V, Sent. 23801/17).

Lo stesso orientamento era ravvisabile dalle Commissioni Tributarie; sul punto infatti: “in tema di Imu, è illegittimo l’assoggettamento degli immobili collabenti all’imposta, poiché essi non sono produttivi di reddito, essendo classificati nella categoria catastale F/2, dovendosi escludere la tassabilità dell’area che, pur essendo astrattamente riedificabile qualora fosse demolito l’edificio soprastante, non è suscettibile di autonoma utilizzazione fino a quando esso vi permanga” (Comm. Trib. Prov. Lombardia – Como, Sez. I, 27.08.2019).

A partire dall’entrata in vigore della norma la situazione è cambiata: la riforma prevede che tutti i fabbricati (quindi anche le unità F/2 – collabenti) devono essere iscritti nel catasto con “attribuzione di rendita catastale”.

La nuova formulazione della norma ha portato al venire meno degli orientamenti consolidati. Oggi si ritiene che pur non essendo tassabile l’immobile in quanto privo di reddito, potrà essere tassata l’area ove sorge l’immobile in quanto edificabile (es. – per un immobile situato su un terreno agricolo dovrà essere corrisposta l’IMU sul terreno).

di:
Avv. Carlo Rocchi – Fondatore di Rocchi &Avvocati
Avv. Lorenzo Marranci – Avvocato presso Rocchi & Avvocati